Dire che C’è un mondo intorno al formaggio – come da slogan della 15esima edizione di Cheese, il più importante evento internazionale dedicato ai formaggi a latte crudo, andata in scena nei giorni scorsi a Bra – significa anche interrogarsi su ciò che accade dall’altra parte del mondo. Perché è dall’altra parte del mondo che arrivano le materie prime, mais e soia in primo luogo, usate nei grandi allevamenti industriali per alimentare gli animali allevati per il latte e la carne: un sistema alimentare contro cui Slow Food si batte da sempre, promuovendo pratiche agronomiche basate su pascolo, rispetto degli animali e alimentazione naturale.
Esistono sostanze chimiche pensate per l’agricoltura, tra cui pesticidi o erbicidi, di cui da tempo sono noti gli effetti dannosi sulla salute dell’uomo e dell’ambiente, e per questo motivo il loro utilizzo all’interno dell’Unione europea è vietato. Può sembrare paradossale, ma dall’altra parte del mondo molte delle sostanze vietate in Ue vengono regolarmente usate nella coltivazione di vegetali, tra cui proprio il mais e la soia. Come è possibile?
«Siccome l’Ue non dispone di sufficienti quantitativi di alcune materie prime, ha bisogno di importare derrate da Paesi nei quali i divieti relativi alle sostanze dannose non sono in vigore – ha spiegato Cinzia Scaffidi, giornalista e docente –. Qui entrano in gioco le regole per l'importazione, che stabiliscono i limiti massimi di residuo per ogni sostanza. Se vivessimo in un mondo governato dalla logica, un prodotto vietato in Europa non dovrebbe essere usato da nessun’altra parte». Ma il mondo non è governato dalla logica, e forse la logica del profitto oggi è più forte del buon senso: «Le multinazionali che producono queste sostanze vietate in Europa hanno le sedi proprio nel Vecchio Continente – ha spiegato Scaffidi – e, non potendole commercializzare all’interno dell’Ue, le vendono all’estero, condannando l’ambiente e gli agricoltori che le usano».
Ci si potrebbe chiedere perché i Paesi dall’altra parte del mondo non si dotano di norme che vietano quei prodotti: la risposta sta nelle pressioni esercitate dai grandi player economici dell’agroindustria – quelli che in un colpo si occupano, brevetti alla mano, di sementi, fertilizzanti, pesticidi e di commercio internazionale – su chi prova a mettere in discussione questo sistema.
Neppure l’Unione europea, la cui Strategia Farm to Fork intende creare sistemi alimentari sostenibili in Europa “senza danneggiare i Paesi terzi”, è indenne da responsabilità: «Non possiamo garantire la sostenibilità in Europa a spese dei Paesi terzi, quelli dove vengono usate le sostanze vietate in Europa e che inquinano territori, falde acquifere, fiumi e uccidono i contadini esposti ai prodotti dannosi» ha aggiunto Scaffidi.
Alla luce di tutti questi motivi, a Cheese 2025 si è parlato di misure specchio per garantire che il cibo importato da paesi extraeuropei sia almeno conforme agli standard stabiliti per quello prodotto nell’Unione europea: se un prodotto dannoso per la salute e l’ambiente è vietato qui, che sia vietato anche fuori. In altre parole: non si possono accettare limiti massimi di residuo. Finché non consideriamo i sistemi alimentari all’interno di un più grande sistema pianeta non ne verremo fuori. Nel mondo tutto è collegato e la sostenibilità c’è per tutti oppure non può esistere. «Può far spavento cercare di capire la logica che regola tutto questo, ma occorre farlo – ha concluso Scaffidi –. Così come serve comprendere che il motivo per cui abbiamo bisogno di importare enormi quantitativi di mais e soia sta nel nostro stile alimentare: se noi non mangiassimo così tante proteine animali (carne, uova, latticini), non ci sarebbero così tanti allevamenti industriali, perciò non avremmo bisogno di tutto quel mangime».
Per dimostrare l’esistenza di due pesi e due misure e le enormi discrepanze normative tra i prodotti europei e quelli extraeuropei, Slow Food Italia insieme a Slow Food Germania ha condotto e pubblicato rapporti sulle filiere alimentari della carne bovina, della soia, del riso e, recentemente, anche su grano e mais.
Gli esempi di filiere locali: Slow Grains e Slow Mays
Cheese 2025 è stato l’occasione di raccontare gli esempi virtuosi di produttori che, anche in Italia, custodiscono varietà antiche, non geneticamente modificate ma sapientemente tramandate di generazione in generazione, di cereali: è il caso delle reti tematiche Slow Mays e Slow Grains.
«Il nostro è un mondo a parte: a differenza della stragrande maggioranza dei mais coltivati in Italia, i nostri sono destinati all’utilizzo umano» ha spiegato Loris Caretto, referente di Slow Mays. «I report pubblicati da Slow Food sulle misure specchio sono importanti per avvertire e preparare i consumatori: permettono di capire il valore aggiunto dei mais e dei cereali delle nostre reti, Slow Mays e Slow Grains, rispetto a quelli che arrivano da lontano».
«I produttori stanno subendo pressioni fortissime dovute alla crisi climatica e non solo: le difficoltà di carattere economico li mettono da tempo ai margini del mercato finanziario che detta legge, punta su prezzi bassissimi preferendo lavorare su quantità, esportazioni e accordi commerciali» ha concluso Mimmo Pontillo, referente della rete Slow Grains. «I nostri produttori hanno avuto il coraggio di vedere nella biodiversità uno strumento importante per riequilibrare queste anomalie, recuperando varietà antiche e producendo quantitativi sufficienti a giustificare filiere minime».
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