Nel
periodo 2011-2016 il settore agroalimentare italiano ha
mostrato tutta la sua natura anticiclica, evidenziando una
redditività (Ebitda su fatturato) in crescita dal 7,8%
all’8,6% e mantenendosi sempre sopra alla media del
settore manifatturiero considerato nel suo complesso. Una
redditività che è stata utilizzata per “mettere in
sicurezza” le aziende, aumentando il grado di
patrimonializzazione e riducendo i debiti.
Bologna,
9 maggio 2018 - Meno imprese ma più solide, questo sembra
essere il risultato di quasi un decennio di crisi che ha
toccato – seppure in modo meno pesante rispetto ad altri
settori – il settore agroalimentare italiano.
La
recessione ha ridotto di quasi il 20% il numero di aziende
agricole italiane, mentre nel caso dell’industria alimentare
l’emorragia è stata più contenuta (-2,5% tra il 2009 e il
2015), con riduzioni più elevate nel caso delle micro
imprese (quelle fino a 9 addetti), quelle cioè che
presentano una propensione all’export più bassa (7% del
fatturato) e che di conseguenza hanno subito maggiormente il
crollo dei consumi interni (diminuiti di oltre il 10% a
valori costanti tra il 2007 e il 2016).
Pur a
fronte di uno scenario di mercato complicato,
l’agroalimentare italiano non ha tradito la sua vocazione
anticiclica (contrastando la recessione con prodotti
innovativi e soprattutto incrementando l’export del 69% nel
periodo 2007-2017), crescendo in termini di valore aggiunto
di oltre il 10% contro un calo del 2% del totale
manifatturiero.
Un’anticiclicità
che si è espressa anche sul fronte della redditività.
Secondo uno studio Nomisma per Agronetwork realizzato su un
campione di oltre 5.400 bilanci di imprese di capitale
operanti nel settore agricolo ed alimentare (in grado di
esprimere un fatturato cumulato di quasi 92 miliardi di
euro), la redditività – misurata come rapporto tra Ebitda e
fatturato – è passata dal 7,8% del 2011 all’8,6% del 2016,
mantenendosi costantemente al di sopra sia della media del
settore manifatturiero che del totale dei quattro comparti
rappresentativi il “made in Italy” (le 4 A) vale a dire
agroalimentare, abbigliamento-tessile, arredo-legno e
automazione, il cui indice cumulato è passato da 6,5% a
7,9%.
L’analisi
ha inoltre evidenziato come all’interno del settore vi siano
stati comparti che hanno “sovraperformato”. Tra questi
figurano il vino (il cui Ebitda margin è passato da 10% a
11,7%) e il dolciario (sempre sopra il 10% nel periodo
considerato) mentre carni e lattiero-caseario sono risultati
sotto la media.
Marginalità
ancora superiori si sono registrate in alcune “nicchie” di
mercato (baby & diet food con Ebidta margin vicine al
20%, acqua e bevande analcoliche, spirits, pasta, caffè e
thè, prodotti da forno), mentre nei comparti tradizionali
sono stati i segmenti ad alto valore aggiunto a restituire
redditività superiori alla media: è il caso di salumi,
gelati e cioccolato-caramelle rispettivamente per carni,
lattiero-caseario e dolciario.
Ma
quali impatti ha prodotto sulla struttura finanziaria delle
imprese agroalimentari questo rialzo generalizzato dei
margini negli anni più difficili dell’economia italiana?
“A parte le
grandi imprese, quelle con fatturato superiore ai 50
Milioni di euro, che hanno utilizzato l’aumento dei flussi
di cassa generato da questa redditività per fare
investimenti, la gran parte delle aziende ha deciso
principalmente di abbattere l’indebitamento finanziario ed
accrescere la propria solidità patrimoniale”,
dichiara Denis
Pantini, Responsabile dell’Area Agroalimentare di Nomisma.
Basti
pensare che il grado di patrimonializzazione, misurato dal
rapporto tra patrimonio netto e totale del passivo, è
cresciuto dal 39% al 44% per il totale delle imprese
agroalimentari. Questo non significa che le aziende hanno
diminuito il ricorso al debito bancario, tant’è vero che
questa leva continua a rappresentare il 79% del debito
finanziario complessivo e nel caso delle micro e piccole
imprese, lo strumento principale – assieme
all’autofinanziamento dei soci – per sostenere i propri
percorsi di crescita.
Percorsi
che, alla luce degli scenari evolutivi che attendono
l’agroalimentare, sono principalmente indirizzati alla
crescita dimensionale, allo sviluppo di prodotti innovativi
e sostenibili nonché ad un aumento delle vendite sui mercati
esteri. “Una maggior
presenza sui mercati internazionali delle nostre imprese
che, purtroppo, interessa ad oggi solo il 15% delle
aziende agroalimentari italiane e vede una forte
concentrazione delle nostre esportazioni sui mercati di
prossimità – come l’UE -, con valori di export ancora
marginali sui paesi asiatici che però saranno quelli che
in futuro cresceranno maggiormente sul fronte dei consumi
alimentari” ha concluso Pantini.
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