L’agroecologia esiste, produrre alimenti in questo modo è possibile e a Terra Madre Salone del Gusto 2024 lo dimostrano donne e uomini che coltivano e allevano in sinergia con la natura. Perché l’agroecologia è questo: significa cogliere e sfruttare le funzioni degli organismi viventi per migliorare il sistema produttivo. È l’arte del mettere a frutto la biodiversità. Se nei sistemi convenzionali si ricorre a input esterni, come fertilizzanti e pesticidi, l’agroecologia promuove la rotazione colturale, le consociazioni, le varietà autoctone, le concimazioni organiche, il pascolamento, l’allevamento free range. E in ognuna di queste parole c’è un pezzetto di soluzione ai problemi che affliggono il sistema alimentare dominante.
«L'agroecologia non offre soluzioni standardizzate e generalizzabili, perché individua tecniche e pratiche sulla base dello studio della situazione di partenza, delle esigenze e delle possibilità offerte dal luogo in cui si intende intervenire: ed è quello il suo bello» sostiene Paolo Barberi, professore associato di Agronomia e coltivazioni erbacee presso l’Istituto di scienze della vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, intervenuto oggi a Terra Madre.
«Il continuo correre dietro a modelli tecnologici garantiti dall’innovazione e dal progresso delle conoscenze scientifiche non è la risposta su cui fondare il futuro del pianeta – afferma Francesco Sottile, docente di agronomia all’Università di Palermo, membro del board di Slow Food Internazionale –. I vecchi e i nuovi ogm, ad esempio, non sono in grado di affrontare le sfide agroalimentari di oggi ma sono solo il tentativo maldestro di far credere che la soluzione sia a portata di mano nascondendo, invece, gli interessi industriali in ogni pezzo della catena agroalimentare, laddove il cibo perde identità e diventa mero profitto».
L’agroecologia in campo e in fattoria: le storie da Terra Madre
In Sicilia, a Petralia Sottana (Palermo), Alessandra Gioia coltiva grano. Per la precisione, due varietà di grani antichi: il tenero Maiorca e il duro Gioia, che porta proprio il cognome della sua famiglia. L’azoto necessario alla crescita del grano non lo prende da fertilizzanti chimici: «Pratichiamo una rotazione tra grano e leguminose, perché queste ultime sono in grado di fissare nel terreno l'azoto presente in atmosfera». Nello stesso tempo, quelle leguminose sono anche «il foraggio per gli animali che alleviamo», tra cui le pecore della Valle del Belice, Presidio Slow Food, da cui l’azienda ottiene il letame che, una volta maturo, viene usato per concimare il terreno sul quale si coltivano anche i pomodori siccagni, una varietà più adatta delle altre ai climi siccitosi delle estati del sud Italia.
Ferdinando Della Peruta, invece, alleva galline tra cui la Bianca di Saluzzo, Presidio Slow Food. A Luserna San Giovanni (Torino) ne ha circa 250, e crescono al pascolo: razzolano e si alimentano liberamente. «Abbiamo due ettari di castagneto e altrettanti di pascolo recintato per proteggerle dai predatori – spiega –. Il pascolo assicura il 35-40% della razione giornaliera, il resto lo integriamo con mangimi appositi oppure con sottoprodotti derivati da castagne, canapa e girasole». I suoi animali vivono molto più a lungo delle galline degli allevamenti industriali: «Di norma, il pollo da girarrosto che si trova in commercio è un esemplare di 27 giorni. Le nostre galline ovaiole vivono all’incirca tre anni, i polli non meno di 150 giorni: più che polli sono galli» racconta. Gli intensivi, Della Peruta preferisce definirli «industrie della carne o delle uova, non allevamenti. Gli allevatori siamo noi che degli animali ci prendiamo cura. Non diventeremo milionari – aggiunge – ma riusciamo a vivere una vita più che dignitosa, senza incidere né sull’ambiente né sugli animali. E patiamo di meno lo stress commerciale: tutto ciò che produciamo lo vendiamo prima ancora di averlo prodotto».
L’agroecologia significa cogliere opportunità, ma anche studiare soluzioni: la cipolla rossa delle Saline di Margherita di Savoia in Puglia ne è una preziosa testimonianza: «Si coltiva su terreni sabbiosi, stretti tra le saline e il mare, che hanno bisogno di aumentare la sostanza organica per essere produttivi – spiega Felice Suma, responsabile dei Presìdi Slow Food in Puglia –. Ecco perché si aggiungono letame e paglia. In quegli arenili lì, usando fertilizzanti chimici non si riuscirebbe mai a produrre nulla, perché il terreno sarebbe carente in struttura».
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