La Galleria Milano è lieta di presentare una mostra di Shūsaku Arakawa, artista e architetto giapponese, figura imprescindibile del concettuale internazionale, la cui ricerca è volta ai meccanismi mentali e alla decodifica del mondo attraverso categorie filosofiche.
L’esposizione si inserisce in un percorso di recupero e ricerca filologica che la Galleria Milano sta portando avanti su alcuni degli artisti con cui ha lavorato in passato, tra cui Enzo Mari e Betty Danon. Ad Arakawa sono state dedicate due personali nel 1983 e nel 2005, quest’ultima insieme a Madeline Gins.
Il percorso di Arakawa si sviluppa tra il Giappone e, soprattutto, gli Stati Uniti. Nato a Nagoya nel 1936, si trasferisce a Tokyo per studiare presso la Facoltà d’Arte, dove fa parte dell’ambiente neo-dada. Da subito abbraccia una tendenza antiartistica e inizia a lavorare sugli elementi diagrammatici che svilupperà successivamente. Nel 1961 lascia il Giappone per New York: il primo incontro è con Marcel Duchamp che diviene il suo mentore e lo introduce al vivissimo ambiente artistico, dove frequenterà John Cage, Jasper Johns e Robert Rauschenberg, tra gli altri. L’anno successivo, nel 1962, conosce quella che sarà la sua compagna nella professione e nella vita, Madeline Gins; nel mentre mette a punto un linguaggio fatto di parole, segni, ombre, linee, semplici morfemi e gradazioni di colore. All’inizio predominano silhouette e oggetti d’uso quotidiano, per poi divenire sempre più “costruzioni spaziali che potrebbero essere definite “iper-cubiche” o tetradimensionali” (Gillo Dorfles).
In mostra alla Galleria Milano sono tele, carte e grafiche degli anni Sessanta e dei primi Settanta, dove indaga il rapporto tra spazio e tempo in una sintesi che lui stesso definisce come filosofia del vuoto, o blank. Proprio in questo periodo pubblica la prima edizione (in lingua tedesca) del fondamentale volume The Mechanism of Meaning (1971), realizzato insieme a Gins: il suo obiettivo primario è comprendere, appunto, il “meccanismo del significato” con un approccio interpretativo, più che analitico. Le sue tele, di grandi dimensioni ma mai omogenee, sono piene di “punti focali”, addensamenti di frecce, tubi, elementi rotanti, lettere e parole come mistake, a rappresentare il continuo cortocircuito di significazione in cui si incaglia l’uomo. Frequente è anche bottomless, una sorta di piramide quadrangolare che, nel bianco della tela, appare come un oggetto misterioso, sovvertito e sospeso. Tutt’attorno le “macchie di blank, di non-quadro, che interrompono l’universo del tessuto-quadro e ci danno la sensazione che il significato e la forma di tutto il resto fluttuino attorno a queste lacune dell’esistere”, secondo le parole di Italo Calvino, che apprezzava la sua arte ed ebbe modo di discuterne con lui in diversi incontri, tra Parigi e New York. Per Calvino la pittura di Arakawa, puramente intellettuale, rende visibile “il colore della mente” – da cui il titolo della mostra: “la mente ha un colore che non riusciamo mai a vedere perché c’è sempre qualche altro colore che ci passa per la mente e si sovrappone al nostro sguardo. […] La mente non può avere altro colore che quello dei quadri di Arakawa”.
Saranno proiettate anche le sue due opere filmiche, Why Not (A Serenade of Eschatological Ecology), 1970 e For Example (A Critique of Never), 1971, quest’ultimo, nella versione italiana, con voice over di Vincenzo Agnetti.
Shusaku Arakawa (Nagoya, 6 luglio 1936 – Manhattan, 18 maggio 2010) ha esposto in numerosi musei, gallerie e istituzioni, tra cui: Museum of Modern Art, Tokyo, 1958; MoMA, New York, 1966; XXXV Biennale di Venezia, 1970; Neue National Galerie, Berlin, 1972; Städtische Kunsthalle Düsseldorf, 1977; Solomon R. Guggenheim Museum, New York, 1997; Solomon R. Guggenheim Museum, New York in 1997; Gagosian Gallery, New York, 2017.
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