DAL 19
SETTEMBRE SOLO AL CINEMA
Durata: 1h
45min
SINOSSI
Da quando ha fatto assolvere un assassino recidivo,
l’avvocato Jean Monier (Daniel Auteuil) non accetta più casi di giustizia
penale. L’incontro con Nicolas Milik (Grégory Gadebois), padre di famiglia
accusato dell’omicidio della moglie, lo tocca profondamente e fa vacillare le
sue certezze. Convinto dell’innocenza del suo cliente, è disposto a tutto pur
di fargli vincere il processo in corte d’assise, ritrovando in questo modo il
senso della sua vocazione.
INTERVISTA A DANIEL
AUTEUIL – Regista, co-sceneggiatore e attore
Come è nata la voglia di tornare dietro la macchina da
presa sei anni dopo SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ETÀ?
Malgrado sia un
esercizio che mi procura un immenso piacere, pensavo sinceramente che non avrei
più fatto film come regista, a meno di non essere pervaso da un irrefrenabile
bisogno di raccontare una particolare storia. Ed è quello che è avvenuto il
giorno in cui mia figlia Nelly, che produce questo film insieme a Hugo Gélin,
mi ha fatto scoprire il blog che teneva un avvocato penalista oggi scomparso,
Jean-Yves Moyart, sotto lo pseudonimo di Maître Mô.
Per quale motivo in particolare?
Perché sono rimasto
subito colpito dalla potenza delle storie di vita e di giustizia che
raccontava, ma anche dal suo modo di esprimere la solitudine dell’avvocato difensore,
l’ultima persona che resta accanto a un imputato e insieme al quale dovrà
affrontare tutti gli altri. È quello che costituisce tutta la bellezza di
questo mestiere: rendere conto dell’indicibile, aldilà del decoro. Nel corso
della mia lettura, sono rimasto affascinato da questa riflessione attorno al
concetto di verità che differisce dagli uni agli altri. La verità che diventa
un intimo convincimento, qualcosa di impalpabile. La scoperta di quel blog mi
ha portato nel cuore dell’umanità, in tutta la sua forza e la sua fragilità
mescolate. Mi è dunque venuta voglia di fare un film per raccontare questa
ricerca di verità.
Quel blog comprende un enorme numero di casi. Perché
ha scelto quello di Nicolas Milik?
Perché mi ha
sconvolto. E se mi sono lanciato in questo film, è stato innanzitutto per la
voglia di impadronirmi della personalità di quell’imputato. Attraverso Milik,
mi associo alle persone che non hanno la parola e quindi si ritrovano subito
indirettamente fragilizzate. E, attraverso lui (associato a un difensore, ossia
a qualcuno per il quale la parola rappresenta l’essenza stessa del suo
mestiere), “La misura del dubbio” è un film che ruota molto vicino all’essenza
stessa dell’essere umano.
Il caso si svolgeva in Camargue?
No. La vicenda aveva
avuto luogo nel nord della Francia, ma per essere il più credibile possibile mi
è subito apparso ovvio trasporla in un universo che conosco: il sud e la
Camargue. Conosco i suoi inverni e i suoi paesaggi in quella stagione. Il mio
desiderio di realizzare “La misura del dubbio” nasce dunque anche da quello di
trascrivere in immagini quella regione, che ho filmato in modo molto più
esotico con i fratelli Pagnol, così come la vivo oggi o come la vivevo da
bambino quando prendevo il mio ciclomotore Solex per andare a scuola con il
mistral che mi soffiava in faccia o sulla schiena.
Qual è stato il primo obiettivo che si è prefissato
lanciandosi in questa avventura?
Parlare della
provincia attenendomi al blog che non raccontava la storia di un grande
penalista parigino né dei grandi casi giudiziari mediatizzati. Il caso Milik ha
tutte le caratteristiche del crimine ordinario, come sfortunatamente se ne
contano tanti ogni giorno. E nel film, racconto come gli elementi di un
processo sono in fondo di una banalità estrema e come le giurie condannino o
assolvano basandosi su poche certezze reali. A partire da questo presupposto,
ho voluto sviluppare un film di genere sposando l’indagine psicologica condotta
da un avvocato. Per esempio, ho molto pensato alle ambientazioni dei western
nei faccia a faccia all’interno dell’aula di tribunale.
Per Jean Monier, il difensore che lei interpreta,
significa anche tornare a occuparsi di un genere di casi che non trattava più
dopo aver fatto assolvere un uomo che aveva commesso dei reati...
Sì, è un uomo che è
rimasto traumatizzato. E che di conseguenza si è dedicato a casi correnti,
ordinari, banali. È un individuo piuttosto fragile, ma che ha mantenuto una
parte di speranza nel suo mestiere e per lui, all’inizio, il caso diventa un
modo per esprimerla. Ma non accetta di seguirlo per spirito di rivalsa. Anzi,
in un primo momento non ha alcuna voglia di occuparsene e incontra l’imputato
solo per fare un favore alla sua ex-moglie, alla quale era stato assegnato il
caso come difensore d’ufficio, che lo prega di sostituirla al primo incontro
con l’accusato, prima di riprendere in mano il caso.
Solo che lui deciderà di difendere lui stesso Milik… A
suo parere perché cambia idea?
Perché qualcosa lo
tocca di quest’uomo dotato di una grossa parte infantile, accusato di aver
ucciso sua moglie. Perché sente che questo tizio si farà stritolare. Perché ha
conservato una parte di fiducia nel suo mestiere. Non ricaverà alcuna gloria da
questo caso, che non finirà sulla prima pagina dei giornali: è semplicemente
una riconciliazione, una guarigione rispetto al suo mestiere. Quello che mi
commuove in Monier, è che per quanto abbia molta esperienza, nel fondo non ha
alcuna certezza e in questo vedo un parallelo con il mio mestiere di attore.
Gli si può dire qualunque cosa, lui è pronto a tutto pur di salvare
quest’uomo... che non necessariamente ha voglia di essere salvato. È una
situazione che fa eco a quella frase di Lacan che sosteneva che amare significa
dare quello che non si ha a qualcuno che non lo vuole! (ride)
Perché ha chiesto a Steven Mitz di scrivere con lei la
sceneggiatura? Qual è stato il suo contributo?
Devo l’incontro con
lui ai miei produttori e il suo apporto è stato considerevole per raggiungere
quello a cui ambivo. Ossia destrutturare la narrazione, che sulla carta aveva
classicamente un inizio, una parte centrale e una fine, per smarrirmi e di
rimbalzo smarrire lo spettatore senza mai perdere il filo della trama. Spezzare
la linearità, in coerenza con il mio modo di filmare quella Camargue che di
primo acchito non riconosciamo, e permettere di passare costantemente dalla
certezza che Milik sia colpevole a quella che sia innocente.
Le è stato chiaro fin dall’inizio che avrebbe
impersonato lei l’avvocato difensore?
Sì, non ho avuto la
minima esitazione! Anche se non era lui che avevo voglia di filmare, bensì gli
altri. Fin dalla prove ho indicato ai miei attori che volevo che in ogni scena
ci fosse un clima di fortissima tensione nell’aula di tribunale, ma senza che
ci fossero spettacolarizzazioni. Volevo che ci fosse molta umanità, fragilità e
incertezza in quell’aula.
Come si è preparato a questo film?
Ho avuto
l’opportunità di assistere a un processo che si teneva a porte chiuse per un
caso identico e sono rimasto costernato nel constatare l’assenza totale di
fatti negli scambi tra l’accusa e la difesa. Ho quindi avuto voglia di
raccontare il processo con lo stesso sentimento di sgomento che avevo provato
io, di mostrare che in fondo, spesso, i testimoni non hanno visto nulla di
preciso, non ci sono prove flagranti, né moventi.
Perché ha scelto Grégory Gadebois per interpretare
Milik?
Ho subito pensato a
lui quando ho capito il lato adulto-bambinone di Milik. Avevo bisogno di un
volto e un corpo che esprimessero il fatto che quell’uomo non comprende nulla
di quello che sta vivendo. Un colosso fragile al quale nessuno ha mai realmente
dato alcun peso né prestato alcuna attenzione, a parte un po’ il suo amico
Roger, e che, per tre anni, ha frequentato un tipo che si è finalmente
interessato a lui: Monier. Un tipo al quale racconterà una storia alla quale
l’avvocato crederà senza la minima esitazione, benché in fondo si tratti solo
della sua verità, non della Verità con la V maiuscola quale il processo
dovrebbe fare emergere.
Come è nata l’idea di affidare il ruolo di Roger al
cantautore Gaëtan Roussel, facendogli muovere i primi passi come attore,
proprio lui che l’ha accompagnata nelle sue recenti avventure come cantante?
Innanzitutto perché
mi aveva confessato che sognava di fare l’attore. E in secondo luogo perché,
con il suo fisico aspro e dolce, mi è sembrato perfetto per il ruolo di questo
ex militare alcolizzato che si sbatte per aiutare il suo amico.
Perché ha chiesto proprio a Sidse Babett Knudsen di
interpretare l’ex moglie di Monier, anch’essa avvocato?
Sidse possiede il
raro talento di riuscire a raccontare una quantità enorme di cose in poche
scene. Del resto è proprio questo che le ho chiesto di fare durante il nostro
primo incontro quando le ho spiegato che avremmo dovuto trovare, fin dalla
nostra prima scena insieme, un modo diverso per dire tutto della coppia che
Monier e Annie sono stati e sono oggi. E Sidse ha contribuito come fanno i
grandi attori: apportando una gigantesca umanità e un modo per sorprendere in
ogni istante. Sulla carta il ruolo può sembrare piccolo, ma quello che fa lei è
immenso.
E come ha messo insieme il resto del cast, composto
quasi tutto di attori che dividono il loro tempo tra cinema e teatro?
Ho visto il
personaggio della procuratrice come quello della studentessa di diritto del
film “Quasi nemici - L’importante è avere ragione” qualche anno dopo. E ho
scelto Alice Belaïdi perché avevo avuto modo di apprezzare da vicino il suo
straordinario potenziale quando ho recitato con lei in “Le nouveau jouet”, ma
anche a livello più personale poiché, come me, ha esordito al Théâtre du Chêne
Noir. E, dal momento che conosco gli attori, so cosa significa il desiderio che
si prova di mostrare e raccontare qualcos’altro di sé. Avevo anche già recitato
con Isabelle Candelier e Jean-Noël Brouté: Jean-Noël aveva interpretato mio
fratello in “Una donna francese” di Régis Wargnier e in “Les fourberies de
Scapin”, Isabelle impersonava Zerbinette, un ruolo impossibile per cui doveva
ridere a crepapelle per un quarto d’ora ed era stata magnifica. Ho sempre
pensato che gli attori che hanno fantasia e sono abituati a incarnare
personaggi comici hanno spesso la possibilità di apportare una parte di umanità
supplementare. Qualcosa che non sia mai statico e che corrisponde a quello che
avviene nelle aule dei tribunali: delle situazioni bizzarre, a volte ridicole
loro malgrado… Suliane Brahim o mia figlia Aurore possiedono anch’esse questa
dote. Ma sono rimasto anche sconvolto da Florence Janas che interpreta la
moglie di Roger Marton (Gaëtan Roussel) e che ho scoperto durante l’audizione
(grazie alla talentuosa Agathe Hassenforder), malgrado io sia a disagio ai
provini dal momento che io stesso ne ho passati pochissimi come attore.
Come lavora con i suoi attori?
Ho provato soltanto
le scene del processo per stabilire la tensione che volevo mettere in scena in
cui ogni parola aveva la sua importanza e ogni intenzione doveva essere
profondamente sentita, per evitare un tono da conversazione. Dirigo gli attori
in modo molto musicale per ottenere questo risultato. E tutto parte da me,
perché io recito con loro, in mezzo a loro. Essere al centro mi permette di
percepire meglio quello che accade.
È perché lo ha visto all’opera in “Un silence” di
Joachim Lafosse che ha scelto il direttore della fotografia belga Jean-François
Hensgens?
Avevo più che altro
voglia che fosse un uomo del nord a filmare il sud! Abbiamo passato molto tempo
insieme e ha saputo trascrivere con amicizia, esattezza e rigore quello che io
desideravo per questo film.
Come avete costruito insieme le immagini del processo
in particolare?
Jean-François è
venuto ad assistere insieme a me al processo di cui parlavo poc’anzi. L’idea
era di trovare il modo per posizionarci nel cuore dei personaggi, di sentire il
minimo fremito, senza tuttavia scivolare nel documentario. Dovevamo avvicinarsi
il più possibile a qualcosa che ci scotta, ci disturba, ci imbarazza. Trovare
attraverso la finzione un modo di essere, a caccia del minimo sguardo, dei
silenzi che la dicono lunga. L’idea centrale era dunque di cogliere il sentire.
Ed è per questo che ho chiesto ai miei attori di rivolgersi sempre ai giurati e
non al pubblico che assiste al processo, né ai rappresentanti della giustizia.
La tensione di cui parla si costruisce necessariamente
al montaggio. Il film così come esiste oggi è fedele alla sceneggiatura?
Sì, molto fedele. In
fondo la fase del montaggio è stata semplice, grazie al fondamentale apporto
della straordinaria Valérie Deseine. Eravamo come due metà dello stesso
cervello. (ride) Per tutto il tempo abbiamo provato le stesse cose. Era
straordinario vedere a che punto mi leggeva nel pensiero. Era essenziale
lasciare che alcune scene indugiassero il tempo necessario per esprimere
pienamente un malessere o un’umanità. Ci tenevo anche che si sentisse la
Camargue, anche se non si vede molto. Penso ai tori, a quella cultura che non è
necessariamente la mia, ma è profondamente radicata in quella regione.
In quale momento ha inserito la musica nel racconto?
Durante il
montaggio, quando abbiamo provato diverse musiche. E strada facendo abbiamo
casualmente incontrato Gaspar Claus e ho avuto l’impressione che avesse scritto
i suoi pezzi per il film. Gli abbiamo
quindi chiesto di aggiungere i suoi brani ad altri grandi pezzi di musica
classica che compongono la colonna sonora, Bach in primis. La musica da film è
una cosa strana. Rispetto all’emozione non deve né prevalere né sottostare.
Dobbiamo percepirla.
Tra i diversi piaceri che ha provato nel realizzare
questo film, ci sono anche quelli di essere stato accompagnato in produzione da
una delle sue figlie e di averne diretta un’altra?
Ad essere
completamente sincero, ho avuto paura di non essere all’altezza del desiderio
di Nelly che produceva un film per la prima volta. Sono una persona spesso
assillata dai dubbi e che tuttavia parte in quarta. Questo doppio slancio
apparentemente contraddittorio è vitale per me. E per questo motivo lavoro
tantissimo. Per quanto riguarda Aurore, ogni volta che la vedo in scena mi
sconvolge. Possiede qualcosa di talmente doloroso in lei che qui volevo che
potesse esprimere la stessa emozione ma nella gioia.
A suo giudizio qual è la singolarità di questo film
rispetto a quelli che ha realizzato in precedenza?
Il fatto di averlo scritto.
Anche se rivendico tutti gli altri. È una cosa strana la vita. Le cose che
crediamo finite, finiscono sempre col tornare. La canzone, la regia... Forse
perché fondamentalmente non ho rinunciato a nulla e sono sempre disponibile a
vivere i miei sogni. Peraltro penso che il fatto di scrivere canzoni abbia
fatto scattare in me la voglia di mettermi a scrivere un film. E non esiste un
limite di età per superare i blocchi! (ride)
E le ha fatto anche venire voglia di continuare?
Sì, sono pronto!
Cerco attivamente un soggetto, un’idea... la macchina è ripartita.
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