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giovedì 5 settembre 2024

LA MISURA DEL DUBBIO (titolo originale: LE FIL)

 





DAL 19 SETTEMBRE SOLO AL CINEMA


Durata: 1h 45min


 

SINOSSI

Da quando ha fatto assolvere un assassino recidivo, l’avvocato Jean Monier (Daniel Auteuil) non accetta più casi di giustizia penale. L’incontro con Nicolas Milik (Grégory Gadebois), padre di famiglia accusato dell’omicidio della moglie, lo tocca profondamente e fa vacillare le sue certezze. Convinto dell’innocenza del suo cliente, è disposto a tutto pur di fargli vincere il processo in corte d’assise, ritrovando in questo modo il senso della sua vocazione.

 

 

INTERVISTA A DANIEL AUTEUIL – Regista, co-sceneggiatore e attore

Come è nata la voglia di tornare dietro la macchina da presa sei anni dopo SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ETÀ?

Malgrado sia un esercizio che mi procura un immenso piacere, pensavo sinceramente che non avrei più fatto film come regista, a meno di non essere pervaso da un irrefrenabile bisogno di raccontare una particolare storia. Ed è quello che è avvenuto il giorno in cui mia figlia Nelly, che produce questo film insieme a Hugo Gélin, mi ha fatto scoprire il blog che teneva un avvocato penalista oggi scomparso, Jean-Yves Moyart, sotto lo pseudonimo di Maître Mô.

 

Per quale motivo in particolare?

Perché sono rimasto subito colpito dalla potenza delle storie di vita e di giustizia che raccontava, ma anche dal suo modo di esprimere la solitudine dell’avvocato difensore, l’ultima persona che resta accanto a un imputato e insieme al quale dovrà affrontare tutti gli altri. È quello che costituisce tutta la bellezza di questo mestiere: rendere conto dell’indicibile, aldilà del decoro. Nel corso della mia lettura, sono rimasto affascinato da questa riflessione attorno al concetto di verità che differisce dagli uni agli altri. La verità che diventa un intimo convincimento, qualcosa di impalpabile. La scoperta di quel blog mi ha portato nel cuore dell’umanità, in tutta la sua forza e la sua fragilità mescolate. Mi è dunque venuta voglia di fare un film per raccontare questa ricerca di verità.

 

Quel blog comprende un enorme numero di casi. Perché ha scelto quello di Nicolas Milik?

Perché mi ha sconvolto. E se mi sono lanciato in questo film, è stato innanzitutto per la voglia di impadronirmi della personalità di quell’imputato. Attraverso Milik, mi associo alle persone che non hanno la parola e quindi si ritrovano subito indirettamente fragilizzate. E, attraverso lui (associato a un difensore, ossia a qualcuno per il quale la parola rappresenta l’essenza stessa del suo mestiere), “La misura del dubbio” è un film che ruota molto vicino all’essenza stessa dell’essere umano.

 

Il caso si svolgeva in Camargue?

No. La vicenda aveva avuto luogo nel nord della Francia, ma per essere il più credibile possibile mi è subito apparso ovvio trasporla in un universo che conosco: il sud e la Camargue. Conosco i suoi inverni e i suoi paesaggi in quella stagione. Il mio desiderio di realizzare “La misura del dubbio” nasce dunque anche da quello di trascrivere in immagini quella regione, che ho filmato in modo molto più esotico con i fratelli Pagnol, così come la vivo oggi o come la vivevo da bambino quando prendevo il mio ciclomotore Solex per andare a scuola con il mistral che mi soffiava in faccia o sulla schiena.

 

Qual è stato il primo obiettivo che si è prefissato lanciandosi in questa avventura?

Parlare della provincia attenendomi al blog che non raccontava la storia di un grande penalista parigino né dei grandi casi giudiziari mediatizzati. Il caso Milik ha tutte le caratteristiche del crimine ordinario, come sfortunatamente se ne contano tanti ogni giorno. E nel film, racconto come gli elementi di un processo sono in fondo di una banalità estrema e come le giurie condannino o assolvano basandosi su poche certezze reali. A partire da questo presupposto, ho voluto sviluppare un film di genere sposando l’indagine psicologica condotta da un avvocato. Per esempio, ho molto pensato alle ambientazioni dei western nei faccia a faccia all’interno dell’aula di tribunale.

 

Per Jean Monier, il difensore che lei interpreta, significa anche tornare a occuparsi di un genere di casi che non trattava più dopo aver fatto assolvere un uomo che aveva commesso dei reati...

Sì, è un uomo che è rimasto traumatizzato. E che di conseguenza si è dedicato a casi correnti, ordinari, banali. È un individuo piuttosto fragile, ma che ha mantenuto una parte di speranza nel suo mestiere e per lui, all’inizio, il caso diventa un modo per esprimerla. Ma non accetta di seguirlo per spirito di rivalsa. Anzi, in un primo momento non ha alcuna voglia di occuparsene e incontra l’imputato solo per fare un favore alla sua ex-moglie, alla quale era stato assegnato il caso come difensore d’ufficio, che lo prega di sostituirla al primo incontro con l’accusato, prima di riprendere in mano il caso.

 

Solo che lui deciderà di difendere lui stesso Milik… A suo parere perché cambia idea?

Perché qualcosa lo tocca di quest’uomo dotato di una grossa parte infantile, accusato di aver ucciso sua moglie. Perché sente che questo tizio si farà stritolare. Perché ha conservato una parte di fiducia nel suo mestiere. Non ricaverà alcuna gloria da questo caso, che non finirà sulla prima pagina dei giornali: è semplicemente una riconciliazione, una guarigione rispetto al suo mestiere. Quello che mi commuove in Monier, è che per quanto abbia molta esperienza, nel fondo non ha alcuna certezza e in questo vedo un parallelo con il mio mestiere di attore. Gli si può dire qualunque cosa, lui è pronto a tutto pur di salvare quest’uomo... che non necessariamente ha voglia di essere salvato. È una situazione che fa eco a quella frase di Lacan che sosteneva che amare significa dare quello che non si ha a qualcuno che non lo vuole! (ride)

 

Perché ha chiesto a Steven Mitz di scrivere con lei la sceneggiatura? Qual è stato il suo contributo?

Devo l’incontro con lui ai miei produttori e il suo apporto è stato considerevole per raggiungere quello a cui ambivo. Ossia destrutturare la narrazione, che sulla carta aveva classicamente un inizio, una parte centrale e una fine, per smarrirmi e di rimbalzo smarrire lo spettatore senza mai perdere il filo della trama. Spezzare la linearità, in coerenza con il mio modo di filmare quella Camargue che di primo acchito non riconosciamo, e permettere di passare costantemente dalla certezza che Milik sia colpevole a quella che sia innocente.

 

Le è stato chiaro fin dall’inizio che avrebbe impersonato lei l’avvocato difensore?

Sì, non ho avuto la minima esitazione! Anche se non era lui che avevo voglia di filmare, bensì gli altri. Fin dalla prove ho indicato ai miei attori che volevo che in ogni scena ci fosse un clima di fortissima tensione nell’aula di tribunale, ma senza che ci fossero spettacolarizzazioni. Volevo che ci fosse molta umanità, fragilità e incertezza in quell’aula.

 

Come si è preparato a questo film?

Ho avuto l’opportunità di assistere a un processo che si teneva a porte chiuse per un caso identico e sono rimasto costernato nel constatare l’assenza totale di fatti negli scambi tra l’accusa e la difesa. Ho quindi avuto voglia di raccontare il processo con lo stesso sentimento di sgomento che avevo provato io, di mostrare che in fondo, spesso, i testimoni non hanno visto nulla di preciso, non ci sono prove flagranti, né moventi.

 

Perché ha scelto Grégory Gadebois per interpretare Milik?

Ho subito pensato a lui quando ho capito il lato adulto-bambinone di Milik. Avevo bisogno di un volto e un corpo che esprimessero il fatto che quell’uomo non comprende nulla di quello che sta vivendo. Un colosso fragile al quale nessuno ha mai realmente dato alcun peso né prestato alcuna attenzione, a parte un po’ il suo amico Roger, e che, per tre anni, ha frequentato un tipo che si è finalmente interessato a lui: Monier. Un tipo al quale racconterà una storia alla quale l’avvocato crederà senza la minima esitazione, benché in fondo si tratti solo della sua verità, non della Verità con la V maiuscola quale il processo dovrebbe fare emergere.

 

Come è nata l’idea di affidare il ruolo di Roger al cantautore Gaëtan Roussel, facendogli muovere i primi passi come attore, proprio lui che l’ha accompagnata nelle sue recenti avventure come cantante?

Innanzitutto perché mi aveva confessato che sognava di fare l’attore. E in secondo luogo perché, con il suo fisico aspro e dolce, mi è sembrato perfetto per il ruolo di questo ex militare alcolizzato che si sbatte per aiutare il suo amico.

 

Perché ha chiesto proprio a Sidse Babett Knudsen di interpretare l’ex moglie di Monier, anch’essa avvocato?

Sidse possiede il raro talento di riuscire a raccontare una quantità enorme di cose in poche scene. Del resto è proprio questo che le ho chiesto di fare durante il nostro primo incontro quando le ho spiegato che avremmo dovuto trovare, fin dalla nostra prima scena insieme, un modo diverso per dire tutto della coppia che Monier e Annie sono stati e sono oggi. E Sidse ha contribuito come fanno i grandi attori: apportando una gigantesca umanità e un modo per sorprendere in ogni istante. Sulla carta il ruolo può sembrare piccolo, ma quello che fa lei è immenso.

 

E come ha messo insieme il resto del cast, composto quasi tutto di attori che dividono il loro tempo tra cinema e teatro?

Ho visto il personaggio della procuratrice come quello della studentessa di diritto del film “Quasi nemici - L’importante è avere ragione” qualche anno dopo. E ho scelto Alice Belaïdi perché avevo avuto modo di apprezzare da vicino il suo straordinario potenziale quando ho recitato con lei in “Le nouveau jouet”, ma anche a livello più personale poiché, come me, ha esordito al Théâtre du Chêne Noir. E, dal momento che conosco gli attori, so cosa significa il desiderio che si prova di mostrare e raccontare qualcos’altro di sé. Avevo anche già recitato con Isabelle Candelier e Jean-Noël Brouté: Jean-Noël aveva interpretato mio fratello in “Una donna francese” di Régis Wargnier e in “Les fourberies de Scapin”, Isabelle impersonava Zerbinette, un ruolo impossibile per cui doveva ridere a crepapelle per un quarto d’ora ed era stata magnifica. Ho sempre pensato che gli attori che hanno fantasia e sono abituati a incarnare personaggi comici hanno spesso la possibilità di apportare una parte di umanità supplementare. Qualcosa che non sia mai statico e che corrisponde a quello che avviene nelle aule dei tribunali: delle situazioni bizzarre, a volte ridicole loro malgrado… Suliane Brahim o mia figlia Aurore possiedono anch’esse questa dote. Ma sono rimasto anche sconvolto da Florence Janas che interpreta la moglie di Roger Marton (Gaëtan Roussel) e che ho scoperto durante l’audizione (grazie alla talentuosa Agathe Hassenforder), malgrado io sia a disagio ai provini dal momento che io stesso ne ho passati pochissimi come attore.

 

Come lavora con i suoi attori?

Ho provato soltanto le scene del processo per stabilire la tensione che volevo mettere in scena in cui ogni parola aveva la sua importanza e ogni intenzione doveva essere profondamente sentita, per evitare un tono da conversazione. Dirigo gli attori in modo molto musicale per ottenere questo risultato. E tutto parte da me, perché io recito con loro, in mezzo a loro. Essere al centro mi permette di percepire meglio quello che accade.

 

È perché lo ha visto all’opera in “Un silence” di Joachim Lafosse che ha scelto il direttore della fotografia belga Jean-François Hensgens?

Avevo più che altro voglia che fosse un uomo del nord a filmare il sud! Abbiamo passato molto tempo insieme e ha saputo trascrivere con amicizia, esattezza e rigore quello che io desideravo per questo film.

 

Come avete costruito insieme le immagini del processo in particolare?

Jean-François è venuto ad assistere insieme a me al processo di cui parlavo poc’anzi. L’idea era di trovare il modo per posizionarci nel cuore dei personaggi, di sentire il minimo fremito, senza tuttavia scivolare nel documentario. Dovevamo avvicinarsi il più possibile a qualcosa che ci scotta, ci disturba, ci imbarazza. Trovare attraverso la finzione un modo di essere, a caccia del minimo sguardo, dei silenzi che la dicono lunga. L’idea centrale era dunque di cogliere il sentire. Ed è per questo che ho chiesto ai miei attori di rivolgersi sempre ai giurati e non al pubblico che assiste al processo, né ai rappresentanti della giustizia.

 

La tensione di cui parla si costruisce necessariamente al montaggio. Il film così come esiste oggi è fedele alla sceneggiatura?

Sì, molto fedele. In fondo la fase del montaggio è stata semplice, grazie al fondamentale apporto della straordinaria Valérie Deseine. Eravamo come due metà dello stesso cervello. (ride) Per tutto il tempo abbiamo provato le stesse cose. Era straordinario vedere a che punto mi leggeva nel pensiero. Era essenziale lasciare che alcune scene indugiassero il tempo necessario per esprimere pienamente un malessere o un’umanità. Ci tenevo anche che si sentisse la Camargue, anche se non si vede molto. Penso ai tori, a quella cultura che non è necessariamente la mia, ma è profondamente radicata in quella regione.

 

In quale momento ha inserito la musica nel racconto?

Durante il montaggio, quando abbiamo provato diverse musiche. E strada facendo abbiamo casualmente incontrato Gaspar Claus e ho avuto l’impressione che avesse scritto i suoi pezzi  per il film. Gli abbiamo quindi chiesto di aggiungere i suoi brani ad altri grandi pezzi di musica classica che compongono la colonna sonora, Bach in primis. La musica da film è una cosa strana. Rispetto all’emozione non deve né prevalere né sottostare. Dobbiamo percepirla.

 

Tra i diversi piaceri che ha provato nel realizzare questo film, ci sono anche quelli di essere stato accompagnato in produzione da una delle sue figlie e di averne diretta un’altra?

Ad essere completamente sincero, ho avuto paura di non essere all’altezza del desiderio di Nelly che produceva un film per la prima volta. Sono una persona spesso assillata dai dubbi e che tuttavia parte in quarta. Questo doppio slancio apparentemente contraddittorio è vitale per me. E per questo motivo lavoro tantissimo. Per quanto riguarda Aurore, ogni volta che la vedo in scena mi sconvolge. Possiede qualcosa di talmente doloroso in lei che qui volevo che potesse esprimere la stessa emozione ma nella gioia.

 

A suo giudizio qual è la singolarità di questo film rispetto a quelli che ha realizzato in precedenza?

Il fatto di averlo scritto. Anche se rivendico tutti gli altri. È una cosa strana la vita. Le cose che crediamo finite, finiscono sempre col tornare. La canzone, la regia... Forse perché fondamentalmente non ho rinunciato a nulla e sono sempre disponibile a vivere i miei sogni. Peraltro penso che il fatto di scrivere canzoni abbia fatto scattare in me la voglia di mettermi a scrivere un film. E non esiste un limite di età per superare i blocchi! (ride)

 

E le ha fatto anche venire voglia di continuare?

Sì, sono pronto! Cerco attivamente un soggetto, un’idea... la macchina è ripartita.


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