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MERCOLEDI 14 AGOSTO
APERTURA NOTTURNA STRAORDINARIA
FINO ALLE ORE 22.00
Vivian Maier, The Self-portrait and its Double_Magazzino delle Idee, Trieste, mostra realizzata da ERPAC
1959_Image size: 12x12 inch (30,48 x 30,48 cm) Paper size: 20x16 inch (50,8 x 40,64 cm)
©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY
Dal 6 luglio al 22 settembre 2019 il Magazzino delle Idee a Trieste presenta, per la prima volta in Italia, la mostra Vivian Maier, The Self-Portrait and its Double, a cura di Anne Morin, realizzata e organizzata dall’Ente per il patrimonio culturale del Friuli Venezia Giulia in collaborazione con diChroma photography, Madrid, John Maloof Collection e Howard Greenberg Gallery New York.
70
autoritratti, di cui 59 in bianco e nero e 11 a colori, questi ultimi
mai esposti prima d’ora sul territorio italiano, raccontano la celebre
fotografa attraverso i suoi autoritratti scattati quando ancora, da
sconosciuta bambinaia, passava il tempo a fotografare senza la
consapevolezza di essere destinata a diventare una vera e propria icona
della storia della fotografia.
Nel suo lavoro ci sono temi ricorrenti:
scene di strada, ritratti di sconosciuti, il mondo dei bambini – il suo
universo per così tanto tempo – e anche una predilezione per gli autoritratti,
che abbondano nella produzione di Vivian Maier attraverso una
moltitudine di forme e variazioni, al punto da essere quasi un
linguaggio all'interno del suo linguaggio. Un dualismo.
L'interesse
di Vivian Maier per l'autoritratto era più che altro una disperata
ricerca della sua identità. Ridotta all'invisibilità, ad una sorta di
inesistenza a causa dello status sociale, si mise a produrre prove
inconfutabili della sua presenza in un mondo che sembrava non avere un
posto per lei.
Il
suo riflesso in uno specchio, la sua ombra che si estende a terra, o il
contorno della sua figura: come in un lungo gioco a nascondino, tra
ombre e riflessi, in mostra ogni autoritratto di Vivian Maier è
un'affermazione della sua presenza in quel particolare luogo, in quel
particolare momento. Caratteristica ricorrente è l'ombra,
diventata una firma inconfondibile nei suoi autoritratti. La sua
silhouette, la cui caratteristica principale è il suo attaccamento al
corpo, quel duplicato del corpo in negativo "scolpito dalla realtà", ha
la capacità di rendere presente ciò che è assente.
L'intenzione
dell'esposizione – che ripercorre l'incredibile produzione di una
fotografa che per tutta la vita non si è mai considerata tale, e che,
anzi, nel mondo è sempre passata inosservata – è proprio quello di
rendere omaggio a questa straordinaria artista, capace non solo di
appropriarsi del linguaggio visivo della sua epoca, ma di farlo con uno
sguardo sottile e un punto di vista acuto.
Una storia straordinaria.
Vivian Maier (1926 – 2009) ha lavorato come bambinaia per 40 anni, a
partire dai primi anni Cinquanta e per quattro decenni, a New York e a
Chicago poi. Nel suo tempo libero, fotografava la strada, le persone,
gli oggetti, i paesaggi; ritraeva tutto ciò che le destava sorpresa, che
trovava inaspettato nel suo vivere quotidiano; catturando l'attimo
raccontava la bellezza dell’ordinario, scovando le fratture
impercettibili e le inflessioni sfuggenti della realtà nella
quotidianità che la circondava.
Ha trascorso tutta la sua vita nell’anonimato fino al 2007, quando il suo corpus fotografico è venuto alla luce. Un lavoro immenso, composto da più
di 150.000 negativi, super 8 e 16mm film, diverse registrazioni audio,
alcune fotografie e centinaia di rullini non sviluppati,
scoperto da un giovane immobiliarista, John Maloof. Grazie a lui il
lavoro di Vivian Maier è venuto allo scoperto lentamente, da bauli,
cassetti, dai luoghi più impensati, e la sua opera fotografica è stata
resa nota in tutto il mondo.
Scattare
ritratti era per Vivian Maier una necessità: il modo con cui definiva
la propria posizione nel mondo, e quello con cui provava a restituire
l'ordine delle cose. Quando i protagonisti dei ritratti erano poveri,
lasciava loro una legittima distanza; quando invece appartenevano
all'alta società metteva in atto azioni di disturbo facendo in modo che
nello scatto risultassero infastiditi. La Maier aveva due facce: quella
che accettava la propria condizione, e quella che invece la combatteva
cercando di essere qualcun altro.
“Ciò che sorprende nella storia di Vivian Maier – afferma Anne Morin, curatrice della mostra – è
come questa donna da una parte accetti la sua condizione di bambinaia
e, allo stesso tempo, trovi invece la sua libertà nell'essere qualcun
altro, la fotografa di strada Vivian Maier; questo dualismo, generato
dallo scontro tra le due anime, ha dato vita a una vicenda senza
paragoni nella storia della fotografia, che in questa mostra viene
raccontata per la prima volta in Italia attraverso i ritratti
dell’autrice”.
Il colore.
Inedito nel percorso espositivo il nucleo di immagini a colori. Per
Vivian Maier, il passaggio al colore è stato accompagnato da un
cambiamento dovuto all’utilizzo di una Leica all'inizio degli anni
settanta. La fotocamera è leggera, facile da portare: le foto sono
riprese direttamente a livello dell'occhio, a differenza della
Rolleiflex che usava prima. Vivian Maier è così in grado di raccogliere
il contatto visivo con gli altri e fotografare il mondo nella sua realtà
colorata. Il suo lavoro a colori rimane singolare, libero e anche
giocoso. Esplora le caratteristiche specifiche del linguaggio cromatico
con una certa casualità, elabora il proprio vocabolario, ma soprattutto
si diverte con il reale: sottolineando stridenti dettagli di colore,
mostrando le discrepanze multicolore della moda o giocando con brillanti
contrappunti.
Filmati SUPER 8 mm.
Accompagna gli scatti fotografici in mostra una serie di filmati in
super 8mm realizzati dalla stessa Vivian Maier, che ci permettono di
seguire il movimento dell'occhio dell’artista. Nel 1960 inizia infatti a
filmare scene di strada, eventi e luoghi. Il suo approccio
cinematografico è strettamente legato al suo linguaggio da fotografa: è
una questione di esperienza visiva, di un’osservazione discreta e
silenziosa del mondo che la circonda. Non c'è narrazione, nessun
movimento della macchina (l'unico movimento cinematografico è quello
della carrozza o della metropolitana in cui si trova). Vivian Maier
filma quello che la porta all'immagine fotografica: osserva, si ferma
intuitivamente su un soggetto e lo segue. Ingrandisce con la lente per
avvicinarsi senza avvicinarsi e concentrarsi su un atteggiamento o un
dettaglio (come le gambe e le mani di individui in mezzo alla folla). Il
film è sia una documentazione (un uomo mentre viene arrestato dalla
polizia, oppure i danni causati da un tornado) sia un oggetto di
contemplazione (la strana processione di pecore ai mattatoi di Chicago).
Biografia.
Vivian Maier nasce a New York il 1° febbraio del 1926 da padre di
origine austro-ungarica e madre francese. Quattro anni più tardi il
padre lascia la casa di famiglia. Vivian e sua madre condividono un
appartamento con la fotografa Jeanne Bertrand. Dopo un periodo in
Francia, nel 1938 tornano a vivere a New York. Ma nei primi anni ’50, la
richiesta di un’eredità la conduce nuovamente in Francia, dove produce
numerosi paesaggi e ritratti degli abitanti della valle di Champsaur
utilizzando macchine fotografiche a scatola o pieghevoli, e le consente
di viaggiare a Cuba, in Canada e in California. Inizia quindi a lavorare
come governante per guadagnarsi da vivere. Nel 1952 compra la sua prima
Rolleiflex. È interessata alla vita quotidiana per le strade di New
York. Scatta ritratti ai i bambini di cui si prende cura, ma anche a
sconosciuti e ad alcune celebrità che incontra. Nel 1955 comincia a
lavorare a Los Angeles, poi l’anno successivo si trasferisce
definitivamente a Chicago, dove inizia a lavorare per la famiglia
Gensburg, con la quale resterà per 17 anni. Qui allestisce un
laboratorio nel bagno privato messo a sua disposizione. Tra il 1959-1960
viaggia in tutto il mondo, soggiornando nelle Filippine, Asia, India,
Yemen, Vicino Oriente, Europa meridionale, e torna poi in Francia per
l'ultima volta. Nel decennio 1970-1980 scatta fotografie a colori con la
sua Leica e filmati da 8 mm e 16 mm. Nel 1990-2000 mette in un
magazzino la sua consistente collezione di libri, ritagli di giornali,
pellicole e stampe, sequestrati dopo alcuni anni per regolare l'affitto
non pagato. È praticamente senza lavoro e le sue risorse sono scarse. La
famiglia Gensburg affitta un appartamento per ospitarla. Muore a
Chicago il 21 aprile 2009.
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