martedì 23 aprile 2019

Senigallia Città della Fotografia presenta C’era una volta la fotografia

In programma
Due mostre fino al 2 giugno 2019

Cavalli Ferroni Giacomelli.
Scatti inediti dagli archivi di Senigallia
Palazzo del Duca

Piccoli tesori dell’800.
Marubbi, Naretti, Callotipi, Dagherrotipi e variazioni
Palazzetto Baviera

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 Anteprima della Biennale di Fotografia il 2-3-4 maggio 2019
Tre giorni di fiera, conferenze e tanto altro
dedicati ai primi 150 della fotografia dal 1839 al 1989.


 

Senigallia vuole affermare sempre di più il suo ruolo di Citta della Fotografia e, dopo le grandi esposizioni delle ultime stagioni dedicate a Robert Doisneau, Aleksandr Rodčenko e Coşkun Aşar, per la primavera 2019 presenta C’era una volta la fotografia. A cura di Serge Plantureux con la collaborazione di Francesca Bonetti e con il sostegno della Regione Marche e la Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi, la manifestazione vuole essere una anteprima di quella che diventerà una vera e propria Biennale di Fotografia a partire dal 2020 e vuole celebrare l’età dell’oro della fotografia permettendo ai visitatori di ammirare stampe d’epoca ed opere fotografiche esclusivamente originali.

In programma due mostre, la prima Cavalli Ferroni Giacomelli. Scatti inediti dagli archivi di Senigallia a Palazzo del Duca che esporrà una serie di inediti dei tre maestri della fotografia senigalliese e internazionale, scatti mai visti prima e selezionati per l’occasione dallo stesso Plantureux dagli archivi degli eredi.

La seconda mostra a Palazzetto Baviera Piccoli tesori dell’800. Marubbi, Naretti, Callotipi, Dagherrotipi e variazioni è dedicata alle prime fasi della storia della fotografia e rappresenterà uno straordinario racconto per immagini di popoli e terre lontane e raccoglie fotografie storiche e originali, alcune mai esposte prima, risalenti al periodo compreso tra la metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, tra cui le serie albanesi di Pietro Marubbi e quelle coloniali di Luigi Naretti. Inoltre, l’esposizione sarà completata da preziosi dagherrotipi, callotipi e modelli del conte Minutoli, oltre che da stampe europee di fine Ottocento.

Il 2-3-4 maggio inoltre la città di Senigallia ospiterà una tre giorni di fiera, conferenze e incontri che coinvolgono tutto il centro storico e che vogliono raccontare i primi 150 anni della fotografia.

Senigallia Città della Fotografia guarda al passato per celebrare il presente, ripercorrendo i 150 anni di storia del mezzo fotografico, dal 1839 - precisamente quel 7 gennaio in cui François Jean Dominique Arago annunciò all’Accademia di Francia l’invenzione di Louis Mandé Daguerre, la dagherrotipia - fino al 1989 e all’avvento della fotografia digitale.

Mostra Cavalli Ferroni Giacomelli. Scatti inediti dagli archivi di Senigallia.
Fino al 2 giugno | Palazzo del Duca
La storia artistica di Giuseppe Cavalli, Ferruccio Ferroni e Mario Giacomelli è strettamente connessa da un lato alla città di Senigallia, città d’elezione per il primo e natale per gli altri due, e dal fatto che furono l’uno il maestro dell’altro, andando poi a formare quel “laboratorio senigalliese” di fotografia che non ha mai smesso, per oltre un cinquantennio, di contribuire, con i suoi protagonisti, all’importante dibattito teorico che si è svolto in Italia intorno alle funzioni e alle estetiche della fotografia.

La mostra vuole ripercorre questa vicenda per scoprire, attraverso gli archivi degli autori o le raccolte di familiari e amici, le modalità attraverso le quali ognuno dei tre fotografi ha individuato i propri interessi e manifestato il proprio linguaggio.   

"Nel 1947 Cavalli aveva redatto il manifesto del celebre gruppo La Bussola, summa dei principi estetici – di matrice crociana – di quella fotografia artistica in auge in ambito amatoriale nell'Italia dell'anteguerra. Nei primi mesi del 1953 progettò la fondazione di una nuova associazione fotografica a Senigallia, il MISA, dove far confluire e maturare i giovani più promettenti in vista di un loro inserimento nell'elitaria cerchia de La Bussola. Fu in questo contesto che Giacomelli decise di mostrargli le sue prime immagini. Cavalli le trovò interessanti e affidò a Ferroni la formazione di Giacomelli relativamente alle tecniche di ripresa e a quelle, ritenute fondamentali, di sviluppo e stampa in camera oscura” (Marco Andreani, Treccani, Dizionario Biografico degli Italiani, 2016).

Un milieu comune che produsse però risultati molto diversi, sia nella resa fotografica, nella tecnica e nella poetica dei tre autori, evidenziati dai documenti inediti esposti per la prima volta in mostra a Palazzo del Duca. La fotografia di Giuseppe Cavalli esclude a priori il documentarismo, è solo una sintesi poetica, dove ciò che conta è la composizione e Il soggetto ha un’importanza secondaria e indipendente dalla sua natura. Cavalli rivendica una cultura e dei modelli prevalentemente pittorici, che trasferisce al suo allievo Ferruccio Ferroni, ma da cui lui ben presto si distacca in maniera decisa.

Ferroni infatti ha come riferimento solo la cultura e il mezzo fotografico come gli unici possibili, come si comprende dai documenti d’archivio esposti in mostra in cui è evidente che le sue immagini sono il frutto di una precisa scelta di obiettivo e pellicola, che danno vita a un equilibrio perfetto tra luce, carta fotografica e camera oscura.

Mario Giacomelli opera ancora diversamente e fin dalle prove più datate si può vedere come ha sviluppato un sistema linguistico personale con proprie regole grammaticali che mettono in connessione tra loro le immagini attraverso simboli e rituali ricorrenti, per un racconto che dura tutta la sua vita e che lo ha portato ad una sperimentazione continua e ad una ricerca di sé stesso e della realtà attraverso la fotografia.

Mostra Piccoli tesori dell’800. Marubbi, Naretti, Callotipi, Dagherrotipi e variazioni.
Fino al 2 giugno | Palazzetto Baviera

Questa mostra allestita a Palazzetto Baviera rappresenta, come recita il titolo, una vera e propria wunderkammer di tesori fotografici, stampe d’epoca, che svelano usi, costumi e modi di vivere della società del secondo Ottocento, senza trascurare un tocco di esotico ed etnografico.

A cominciare dal barone Alexander von Minutoli creatore nel 1845 a Legnica, in Polonia, di uno dei primissimi musei di arti decorative in Europa; il primo del diciannovesimo secolo, precursore del Victoria and Albert Museum di Londra e del Musée des Arts Décoratifs di Parigi. Minutoli ha fatto ampio uso della fotografia e, utilizzando un ingegnoso sistema di schizzi e un telescopio, ha creato un corpus di oltre 150 fotografie su carta salata - alcune delle quali esposte in mostra - con l’obiettivo di contribuire alla formazione degli studenti di arti applicate e diffondere gusto e conoscenza e quindi migliorare il commercio e la promozione delle arti.

Un esempio di marketing ante litteram strettamente connesso allo sviluppo dei dagherrotipi e callotipi nati proprio dal desiderio di conservare le immagini che si formano nella camera oscura. Nel 1939 Luis Daguerre in Francia elabora la tecnica del dagherrotipo che produce esemplari dalla luminosità vivace e scintillante e con una resa precisa dei dettagli, a cui si contrappongono la profondità della carta e le ombre sfocate dei calotipi messi a punto negli stessi anni dall’inglese William Henry Fox Talbot cha valorizzano più la composizione d’insieme e i giochi di luce.

A partire dal 1841, molti laboratori di dagherrotipia vengono aperti in Francia, una dozzina nella sola città di Parigi, e in tutta Europa, aumentando man mano sempre di più e rendendo accessibile il dagherrotipo ad un vasto pubblico. In mostra alcuni dei più antichi ritratti fotografici conosciuti, realizzati al dagherrotipo, una serie di fotografie su carta degli anni 1840-1860, calotipi e albumine e le cosiddette "Variazioni Monocromatiche", che mostreranno la grande varietà di sfumature ottenute nelle stampe di prova, queste ultime provenienti dalla collezione parigina di Serge Kakou, esperto di fotografia e specializzato in particolare nei viaggi di scoperta da parte dei fotografi del diciannovesimo secolo.

Ed è da qui che si arriva a Luigi Naretti e Pietro Marubbi, due dei più conosciuti fotografi etnografici che raccontano la società eritrea l’uno e quella albanese l’altro della seconda metà dell’Ottocento. Naretti è il primo vero “fotografo colono” che risiede stabilmente in Eritrea dal 1885, documentando l’impresa coloniale italiana con un’imponente produzione fotografica, in cui si riscontrano gli stereotipi e i temi dell’esotismo ed erotismo tipici dell’immaginario coloniale del periodo. Proprio per questo scatta prevalentemente in studio, ricostruendo l’ambiente indigeno con un intento antropologico, da un lato cercando di classificare l’appartenenza etnica dei soggetti e dall’altro realizzando molti nudi femminili richiamandosi al mito della Venere nera. In mostra alcune sue prove d'epoca (ri)scoperte nell'archivio della Biblioteca Antonelliana di Senigallia da uno storico locale, Leonardo Badioli.
 
Pietro Marubbi, di fede garibaldina e costretto a lasciare presto l’Italia per motivi politici, dopo vario peregrinare, si stabilisce a Scutari in Albania nel 1850, allora sotto l’impero Ottomano. Lì dopo pochi anni apre il primo studio di fotografia nei Balcani e inizia a documentare la storia albanese ottenendo varie pubblicazioni in riviste internazionali. Nel corso degli anni la voglia, mista a vanità, di farsi ritrarre contagiò tutti, impiegati, religiosi, gente comune ed eroi popolari, come Hamza Kazazi, l'eroe dell'insurrezione nazionale fotografato nel 1859, un anno prima della sua morte, e, nello stesso anno, Leonardo De Martino, poeta albanese rifugiatosi in Italia per fuggire dalle conquiste ottomane. Esposti per la prima volta, questi originali, colorati dall'artista con fango e pigmenti naturali, erano stati trovati da uno dei primissimi viaggiatori ad avventurarsi in Albania e ora sono conservati nella Collezione Pierre de Gigord, dedicata all'Impero Ottomano.

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