Che le
tagliatelle rappresentino uno dei piatti tradizionali bolognesi più famosi è
risaputo da tutti. Ma allora gli “spaghetti alla bolognese” che vengono
strombazzati nei menù di tutto il mondo cosa c’entrano? Hanno diritto o no di
cittadinanza sotto le Due Torri?
Un gruppo di
amici buongustai petroniani ha creato la “Balla degli spaghetti alla bolognese”.
Come affermano i promotori si tratta soprattutto di una gustosa provocazione
perché, a loro dire, questo piatto non ha nulla a che vedere con Bologna dove
la pasta asciutta che tiene da sempre banco sono le tagliatelle e non gli
spaghetti seppure accompagnati all’estero e qualche volta anche in Italia dallo
specificativo “alla bolognese”.
Un’identificazione,
questa, che starebbe solo a indicare che hanno un condimento di carne, sia che
si tratti del classico ragù felsineo oppure di qualche più o meno astruso
intruglio come gran parte di quelli in voga in America. Il che è vero ma è
anche falso contemporaneamente. Vediamo perché.
Anzitutto non
bisogna cadere nell’errore superficiale di pensare che a Bologna in tutte le
case lungo i secoli si siano mangiate ogni giorno le tagliatelle al ragù. Anche
perché questo voleva dire che tutte le mattine le brave arzdoure
petroniane avrebbero dovuto procurarsi uova fresche e mettersi al tagliere a
tirare una bella sfoglia col matterello. E in una città che rima della peste
del 1630 ha sfiorato i 60 mila abitanti è assurdo pensare che ci nutrisse di
tagliatelle o comunque di pasta di produzione domestica. Però, come specificano
i bandi comunali del Sei-settecento rivolti ai “pastaroli” e per informazione a
tutta la collettività, esistevano, almeno fin dalla seconda metà del 500,
negozi che vendevano pasta “bianca e pasta gialla”, fresca e secca (tra cui i
“vermicelli” ossia il termine usato per identificare gli spaghetti fino al 1819
quando a Napoli vennero ribattezzati spaghetti). E quando un alimento veniva
regolato ogni anno col calmiere significa che si trattava di un prodotto di
larghissimo consumo in città, specie nei ceti più popolari. E significa anche
che si trattava di pasta bolognese fabbricata “all’uso di Genova e di Puglia”,
avvertendo così i cittadini che non proveniva più, come avvenuto dal XIV al XVI
secolo da questi luoghi, la cui importazione si era ridotta a piccole quantità
riservate ai ceti più abbienti e pertanto non regolamentata dai calmieri. Come non
rientrava nei calmieri la mortadella dato che si trattava di un prodotto di
lusso.
Molti di quelli
che, a digiuno della documentazione storica e amanti delle leggende, sostengono
acriticamente il contrario si trovano certamente più a loro agio con un rassicurante
piatto di tagliatelle che con la storia alimentare (che, non dimentichiamolo,
va fatta sui documenti d’archivio e non sul sentito dire, o su presunte quanto
erronee leggende). Infatti ignorano che i
vermicelli/spaghetti, conditi in vari
modi, compreso il ragù, sono sempre stati di largo consumo nei secoli passati a
Bologna, anzi documentati fin dal ‘500.
Anche perché in
una città molto popolata era impensabile che le tagliatelle nelle case dei
ricchi e meno che meno in quelle dei poveri, scorressero come un fiume in
piena, accanto alle paste tradizionali come le lasagne, i tortellini e i
tortelloni, piatti destinati non all’alimentazione quotidiana ma a quelle delle
feste. A tenere banco a Bologna, almeno fin dal secolo XVI, erano infatti non solo
le tagliatelle, riservate però al pranzo domenicale e a quello dei giorni
festivi, ma pure gli spaghetti, chiamati, lo ripetiamo ancora una volta più
propriamente «vermicelli» (in dialetto varmizi
o marmizi)).
In un bando emanato il 9 aprile 1575 per fissare i
prezzi calmierati a favore dei pellegrini diretti a Roma per l’Anno Santo, è
menzionata la “minestra di tagliatelli o simile”. E’ bene avvertire subito che
non si fa riferimento a un piatto brodoso perché da sempre a Bologna col
termine “minestra” viene indicata, non solo la pasta in brodo come sarebbe
appropriato, ma anche qualunque tipologia di pasta asciutta.
Null’altro si sa sul condimento di queste
tagliatelle cinquecentesche di locanda, sicuramente ricavate da sfoglie tirate
a suon di matterello e condite con burro e parmigiano grattugiato analogamente
a quanto avveniva per le lasagne come documenta un codice manoscritto
trecentesco conservato alla Biblioteca Universitaria di Bologna. Oppure erano insaporite
con un condimento tipico, fin dall’epoca medievale consumato come pietanza a se
stante, ossia un gustoso intingolo in cui inzuppare il pane. Era composto di
carne di manzo, carne di maiale, lardo, pancetta e archest, ossia le
rigaglie di pollo ed è restato in auge nelle nostre campagne fino alla metà
dell’800. Era il ragù cosiddetto in bianco ossia senza la conserva di pomodoro.
Per trovare quest’ultima, che rende così
caratteristico il ragù alla bolognese di oggi, bisogna attendere il definitivo
ingresso nell’alimentazione del pomodoro, rimasto dopo la scoperta dell’America
in penombra per tre secoli relegato soprattutto negli orti botanici come
curiosità vegetale. Veniva consumato solo da pochi amanti dei sapori nuovi,
anche perché una credenza popolare lo riteneva velenoso (il che è vero, ma solo
nelle foglie che, come tutte le solanacee, contengono una sostanza tossica, la
solanina). Il primo a inserire nel suo ricettario “Lo scalco alla moderna”
una “salsa di pomodoro alla spagnola” fu alla fine del’ 700 fu il cuoco Antonio
Latini, attivo a Napoli, consigliandola per accompagnare i bolliti. Ma si
tratta di un caso sporadico. Per vedere l’entrata in scena definitiva del
pomodoro bisogna attendere la seconda metà del secolo XIX.
Ma veniamo agli spaghetti alla
bolognese che fin dal secolo XVI figuravano spesso sulle tavole dei petroniani. Però attenzione né nei vecchi ricettari bolognesi
né in quelli italiani non sono mai nominati gli spaghetti per il semplice fatto
che con questo nome, non lo ripeteremo mai abbastanza, non esistevano.
Esistevano invece i loro antenati, i loro parenti più stretti i “vermicelli”. Gli spaghetti vengono menzionati per la
prima volta in un ricettario napoletano del 1819.
Ma cosa si mangiava a Bologna nel ‘500 e anche nei
secoli precedenti? Tanta pasta secca. E non come sostengono alcuni noti chef di
oggi. Ed è proprio il forte consumo di pasta asciutta a spingere i governanti
cittadini a favorire la nascita nella seconda metà del ‘500 del primo
pastificio petroniano.
Infatti il 20 novembre 1586 il Senato di Bologna
decise di accogliere la supplica di Giovanni Dall’Aglio che chiedeva il
privilegio di produrre e vendere in esclusiva pasta per un periodo di dieci
anni.
Nell’avanzare la sua richiesta il Dall’Aglio
affermava di avere riflettuto attentamente sui vantaggi che sarebbero derivati
alla città dalla possibilità di disporre di pasta e soprattutto di vermicellos
(ecco gli spaghetti di una volta
sotto mentite spoglie!!), ossia gli spaghetti, lassagnas, macarones.
Con la produzione industriale si sarebbe anche ottenuto un risparmio di farina
rispetto ai sistemi artigianali e domestici. Ma soprattutto avrebbe subito una
forte diminuzione l’importazione di pasta da Genova e dalla Puglia cui andavano
le preferenze dei bolognesi.
Per l’impianto produttivo lo stesso imprenditore
era disposto a procurarsi «ferreis instrumentis ad conficiendas diversas
qualitatis impastationes» (ossia strumenti di metallo per confezionare le
diverse qualità di pasta), destinando a tale attività una schiera di abili
operai.
La concessione per la produzione esclusiva di pasta
“all’uso di Genova e di Puglia”, quindi imitando i due principali tipi di pasta
importati a Bologna, era sottoposta a due precise condizioni. Anzitutto l’obbligo di utilizzare
il “farina di frumento acciarino”, ossia di grano duro, e poi quello di
fabbricare la pasta a prezzi inferiori rispetto a quella forestiera. La
concessione venne rinnovata anche nel secolo XVIII con l’obbligo per i
rivenditori di mantenere ben distinti i prezzi fra la pasta locale e quella
importata dalla Liguria e dalla Puglia che costava più del doppio e che
pertanto era destinata ai ceti più abbienti.
La dimostrazione che a Bologna
già durante il ‘600 e il ‘700 si consumassero grosse quantità di pasta secca,
in particolare vermicelli, ossia spaghetti, è fornita dai bandi legatizi
emanati ogni anno dal Senato per calmierare i prezzi. Bandi che riguardavano solo la pasta di
produzione locale e non quella forestiera che aveva un prezzo di mercato libero
e soddisfaceva le esigenze gustative di chi poteva permetterselo.
In questo panorama alimentare non mancavano
certamente le tagliatelle, ma non destinate al consumo quotidiano, bensì, salvo
rare eccezioni, a quelli di più alto status sociale.
I trattati culinari dal secolo
XVI al XIX confermano l’uso di vermicelli / spaghetti anche sotto le Due Torri. Molto in voga sono sempre stati quelli al tonno,
specialmente a partire dalla metà dell’800 quando il francese Appert, inventò i
contenitori a tenuta stagna che permisero di offrirlo in commercio sott’olio
mentre in precedenza si usava la tonnina, ossia filetti di tonno essiccato e
salato che bisognava sciacquare nell’acqua per dissalarli. Comunque non è mai mancato chi preferiva
insaporirli col ragù, come testimoniano diverse ricette contenute in tanti
ricettari manoscritti casalinghi come quelle inviati una ventina d’anni fa alla
rubrica “Le ricette nel cassetto” curata da chi scrive per “Il Resto del
Carlino”.
Lo confermano anche le liste dei generi alimentari
di consumo di tre benemerite istituzioni cittadine create nella seconda metà
dell’800, che vedono protagonisti il Comune, la Chiesa e istituzioni
filantropiche come la Società Operaia. Si tratta delle “Cucine economiche” e
delle “Cucine popolari”, che garantiscono il minimo vitale, anzi molto di più,
alle classi meno protette, quelle dei lavoratori stagionali, specie durante i
periodi in cui la manovalanza era priva di occupazione come si verificava in
inverno per i muratori e il bracciantato agricolo. Fra le vivande preparate
figurano infatti molto spesso gli spaghetti conditi col ragù.
Per saperne di più rinvio al saggio “Alimentazione
e consumi nella Bologna dell’800”, di Giancarlo Roversi, pubblicato qualche
anno fa nel quarto volume della “Storia ufficiale di Bologna promossa dal
Comune tramite l’Istituto per la storia di Bologna.
In conclusione, i vermicelli / spaghetti nella loro
versione alla bolognese al ragù, quello in bianco in auge fino all’inizio
dell’800 prima che vi entrasse la salsa di pomodoro, hanno pieno diritto di
cittadinanza nella cucina petroniana e anche nella sua proiezione
internazionale, accanto alle nobilissime tagliatelle e non in concorrenza con
esse.
Le verità non dette sugli
‘Spaghetti alla bolognese’
L’attacco frontale al piatto più noto nel mondo –
gli spaghetti alla bolognese – sferrato ancora una volta dal primo cittadino di
Bologna, da un lato evidenzia la scarsa attitudine dei politici a impegnarsi in
cose più utili per la propria città (che problemi da risolvere ne ha ancora
molti) dall’altro fa capire l’ennesima occasione perduta di Bologna che ha un
fortissimo “brand” a disposizione e per di più che non è costato nulla! Infatti
creare appositamente un brand di questo tipo e farlo conoscere in tutto il
mondo avrebbe, oggi, un costo inimmaginabile.
Come da tempo affermiamo, in incontri pubblici come
nella pubblicazione dell’amico Piero Valdiserra, purtroppo scomparso prematuramente,
nel suo libro “Spaghetti alla bolognese: l’altra faccia del tipico” da noi
pubblicato, la promozione della città felsinea potrebbe e dovrebbe fruire del
traino di questo marchio. Poi al turista che verrà a Bologna si faranno
conoscere le prelibatezze della ns. cucina e di tutto il resto che la nostra
città sa offrire ad un turista. Ma è un discorso che non vuole essere recepito
dalle istituzioni ed a molti cosiddetti esperti.
Non mi prolungo a ricordare quanto l’amico
Giancarlo Roversi ha già ben descritto con una approfondita ricerca storica nel
suo testo allegato e nel libro che sta ultimando.
In ogni caso difendiamo un
piatto amato dalla gente come da politici ben noti quale la Cancelliera Angela
Merkel e difendiamo il ragù alla bolognese quale eccellente condimento sia per
la pasta all’uovo che per lo spaghetto.
Dott. Giulio Biasion,
direttore editoriale Edi House
Presidente Ass. Club dei
Sapori, membro ‘Balla degli spaghetti alla bolognese’
La scoperta della vera ricetta degli spaghetti
bolognesi
(spaghettibolognesi.it)
Quale portavoce
del comitato per la promozione della vera ricetta, gli Spaghetti Bolognese,
richiamando quanto meglio descritto nel sito, comunica che dal 2016 è stata
depositata la ricetta degli spaghetti bolognesi ricavata dall’esperienza delle
arzdoure della bassa bolognese che nei giorni feriali usavano integrare il ragù
rimasto dal condimento delle tagliatelle della domenica con salsiccia di maiale
e piselli, creando così un gustoso condimento che buttavano sugli spaghetti.
Tale usanza è diffusa sin dall’inizio del Novecento ad oggi. Tale ricetta è
stata proposta con grande successo in numerosi eventi in Italia e all’estero e
costituisce una ‘rieducazione’ dei
più disparati condimenti che si usano all’estero sugli spaghetti. Riteniamo
così di aver ricondotto questo piatto universale nel corretto alveo della
tradizione bolognese. Ovviamente è un piatto ‘povero’ che costituisce un contorno ai piatti più pregiati della
tradizione (lasagne, tagliatelle, etc). In questo modo si contemperano entrambe
le esigenze, da una parte di conservare questo piatto conosciuto e diffuso in
tutto il mondo, riconducendolo alla sua storicità e attualità e, dall’altra,
appunto sulla scorta di detto piatto da noi riscoperto, apprezzare, diffondere
e privilegiare i piatti più tradizionali di pasta e ragù della nostra cucina.
Avv. Gianluigi Mazzoni, portavoce del Comitato per la promozione della
vera ricetta degli Spaghetti Bolognesi
A integrazione del suo articolo di cui sopra, uscito alcuni anni fa,
Giancarlo Roversi ci ha rilasciato queste ultime annotazioni.
“E’ ora di finirla – dice il giornalista e storico
dell’alimentazione Giancarlo Roversi (con al suo attivo un gran numero di
libri, saggi e ricerche sulla cultura del cibo a Bologna) - con l’inveterata
abitudine dei bolognesi di fare del deleterio autolesionismo. Tanto più in una
stupida querelle come quella degli spaghetti
versus tagliatelle, portata avanti sulla base del sentito dire e di una
erronea antistorica credenza diffusa alla metà del secolo scorso.
Una credenza che oggi ha come paladini chi non ha
mai consultato un archivio, praticato una gerarchia ed esegesi delle fonti
documentarie e bibliografiche e cronachistiche e che quindi di storia
alimentare ha una preparazione deficitaria.
Purtroppo, dispiace rilevarlo, fra questi c’ è
anche quale famoso chef, insuperabile nelle sue creazioni culinarie ma non
provvisto di un solido bagaglio di storia alimentare come quando afferma che a
Bologna si è sempre mangiato pasta fresca a e non secca. Senza tenere conto che
in una città, che ha sfiorato prima della peste del 1630, i 60 mila abitanti,
era pressoché impossibile fare ameno di un congrua produzione di pasta secca
quotidiana come confermano i documenti. Altro arzdoure petroniane che si alzano tutte le mattine e fare la
sfoglia per le tagliatelle lasagne, tortellini stricchetti, tortelloni e via di
seguito.
Quindi finiamola di portare avanti una bagarre che
assomiglia solo a una eunucomachia e lasciamo che i garagisti facciano i
garagisti, i postini i postini, i ragionieri i ragionieri, i preti i preti e
che i colleghi giornalisti verifichino sempre la fondatezza di notizie
abbastanza risibili come quelle di un campo non minato come quello alimentare.
E anche che i politici, se non conoscono a fondo una materia, si interessino di
altro!”
Ma di tutto questo si parlerà abbondantemente in un
volume di prossima pubblicazione a New York e curato dallo stesso Roversi e da
un collega americano perché, non bisogna dimenticare che il Paese che consuma
più spaghetti, diciamo “alla bolognese”, sono gli U.S.A dove esiste anche una
nutrita associazione di cultori.
Giancarlo Roversi, giornalista
e storico
www.spaghettibolognesi.it
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