Fino al 6 luglio 2018 la Fondazione Adolfo Pini presenta la mostra Labyrinth, un progetto site-specific realizzato dall’artista Jimmie Durham, a cura di Gabi Scardi.
Jimmie Durham
è una delle maggiori personalità artistiche del presente.
Intellettuale, saggista e poeta, oltre che artista visivo, dagli anni
Sessanta il suo lavoro evidenzia il sistema di convenzioni all’interno
delle quali viviamo; convenzioni che riguardano le idee, i
comportamenti, la storia e le sue interpretazioni. Metterle in
discussione significa aprirsi al dubbio, evidenziare la sfaccettatura
della realtà, lasciare emergere una molteplicità di visioni
possibili.
Le
sue opere consistono, in molti casi, in arrangiamenti di materiali
naturali o industriali, innestati gli uni sugli altri; materiali che
normalmente sfuggono all’attenzione o risultano troppo al di sotto di
ogni valore per essere classificati; queste opere equivalgono dunque a
commenti sulla natura delle cose e sul loro valore. In altri casi le
installazioni si compongono di oggetti trovati o creati: oggetti che
sono concentrati di quotidianità, che narrano storie, e ci dicono chi
siamo. Alla base della sua pratica c’è infatti la volontà di restituire
alle cose la possibilità di presentarsi nella propria essenza; di
decostruire le sovrastrutture che le circondano, e con esse i concetti
cardine della civiltà del consumo.
In
questa logica si inserisce l’attenzione che l’artista dedica al tema
dell’architettura, elemento da sempre centrale nella sua poetica.
Dell’architettura, nel corso degli anni, Durham ha voluto scardinare
l’assertività, la monumentalità. L’oggetto della sua critica è il senso
di stabilità, che rende l’individuo certo e perentorio e lo sottrae al
dubbio imbrigliandone l’attitudine critica.
Per la Fondazione Adolfo Pini l’artista crea un nuovo progetto, appositamente concepito, lavorando sullo spazio esistente e sulle sue strutture.
In particolare, Durham porta all’esterno ciò che normalmente è “dentro”
il corpo dell’architettura; rende visibili i materiali che lo
compongono, rivela ciò che sta sotto il rivestimento: i “visceri”, le
“interiora”; il rimosso; Innards, appunto. Per estensione, l’artista
affronta così la questione di ciò a cui si dà spazio o ciò che si cela;
di ciò che si dice o si omette. Al progetto abbina un video del 1994, The Man Who Had A Beautiful House,
video girato da Jimmie Durham in Messico. Vi si vede un uomo,
elegantemente vestito, che avanza in un ambiente naturale mentre
descrive una casa che non c’è; ma che si trova ovunque la si voglia
riconoscere. Una casa che è un concetto e un sogno, che potrebbe anche
essere un castello; che ha angoli di pietra e pareti di mattoni; in cui
ci sono camere, una cucina, utensili, tessuti, sedie disposte a cerchio.
Le parole dell’uomo sono poetiche. I suoi gesti esemplificano il
racconto esibendo alcuni degli oggetti menzionati. Il video si inserisce
nell’ambito di un’esplorazione dell’idea di abitare intesa come
riferimento primo dell’identificazione individuale e sociale e come
veicolo di aspirazioni e desideri, visioni del mondo.
Dopo aver presentato i primi tre progetti site-specific, The Missing Link di Michele Gabriele, Materia prima di Lucia Leuci e Memory as Resistance di Nasan Tur,
con questa nuova mostra la Fondazione Adolfo Pini prosegue pertanto il
proprio percorso dedicato all’arte contemporanea, sotto la guida di Adrian Paci.
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